C’era un ragazzino che veniva quasi ogni giorno.
Non so come si chiamasse, nessuno gliel’ha mai chiesto davvero. Avrà avuto tredici, quattordici anni al massimo. Maglietta larga, jeans sempre un po’ troppo corti, e uno zainetto grigio che non toglieva mai, nemmeno quando si sedeva sulle panchine davanti ai cabinati.

Entrava sempre verso le 17:00, quando la sala iniziava a riempirsi ma ancora non c’era troppa confusione. Si metteva in piedi vicino a “Metal Slug” o a “Tekken”, e guardava gli altri giocare. Non parlava. Non disturbava. Solo osservava. A volte si metteva le mani in tasca, altre volte tamburellava con le dita sul bordo della macchina.

Non metteva mai monete. Mai una volta l’ho visto giocare.

Una sera, poco prima di chiudere, mi avvicino con una scusa banale, tipo “tutto ok?”.
Lui mi fa un mezzo sorriso e dice:
«Sì… io guardo. Tanto so già come vanno tutte le mosse.»

E mi inizia a raccontare, senza che glielo chieda, tutte le combo di Law su Tekken, le strategie per finire Metal Slug senza perdere una vita, e persino un trucco per sbloccare un livello nascosto su Puzzle Bobble. Roba che nemmeno io, che ci lavoro, sapevo.

Gli chiedo:
«E come fai a sapere tutto se non giochi mai?»