lavoro da 12 anni in un’officina moto, ne ho viste di ogni tipo, ma questa mi è rimasta impressa più di tutte.
Arriva sto tipo un pomeriggio d’estate con una Yamaha Fazer 600 del 2003, tutta scassata, sella rattoppata col nastro americano, manopole diverse tra loro, e pure un odore di cane bagnato che manco in spiaggia col vento contrario. Scende, casco in mano, e mi fa:
“Fratè, la moto ha un’anima e la mia sta male. Me la curi?”
Siamo su una strada panoramica a cavallo fra due nazioni, quindi capitano spesso piloti poeti.
Io penso stia scherzando. Invece no. Si mette seduto e inizia a raccontarmi la storia della moto: era di suo fratello, morto anni prima. Lui non l’ha mai venduta “perché è come se ci parlasse ancora”.
A quel punto, boh, mi viene un misto di tenerezza e ansia da prestazione. Mi dice:
“Non voglio che sembri nuova. Voglio che torni a respirare.”
Così ci lavoro per tre giorni. Cambio l’olio che era diventato marmellata, regolo le valvole, sistemo l’impianto elettrico che sembrava fatto da un gatto nervoso, cambio gomme, freni, carburatori. Alla fine parte al primo colpo, con un rumore rotondo che non sentivo da tempo su una Fazer.
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