Arrivano con buste, foglietti, documenti spiegazzati e un’idea molto vaga di ciò che vogliono. Più spesso ancora, non vogliono sapere davvero: vogliono sentirsi dire che va tutto bene, che non devono fare niente, che qualcun altro penserà a tutto.
Un giorno entra un cliente con un’espressione tra il fiducioso e il sospettoso. Tira fuori un incartamento disordinato, che chiama “documentazione completa”, e lo lascia sul tavolo con la delicatezza con cui si lasciano le offerte al tempio.
Dice che vuole “un controllo veloce, giusto per sicurezza”.
Sfoglio i fogli: moduli incompleti, date sballate, codici fiscali trascritti a mano con una “X” al posto della “Y”. Alcune carte non c’entrano nulla. Una è intestata a un’altra persona. Una è di dieci anni prima.
Glielo faccio notare, con tono neutro.
Lui ride.
“Eh, ma io pensavo che voi qui… sistemaste tutto.”
Quel “voi” che vale per chiunque si occupi di cose che la gente non capisce. Fiscalisti, notai, meccanici, idraulici del diritto. Maghi con lo scanner e la calcolatrice.
Ma il “sistemare tutto” implica due cose che lui non ha portato: tempo e responsabilità.
Gli spiego cosa manca, cosa va rifatto, cosa deve chiedere alla banca, cosa va aggiornato.
Lui ascolta, annuisce, poi se ne esce con:
“Va bene, allora ci penso. Ma se mi arriva una multa… sappia che io ci avevo provato, eh.”
Come se provarci — a caso, senza strumenti, senza ascoltare — fosse già sufficiente per essere salvati da tutto.
Io sorrido.
Archivio la pratica.
E ripenso a quello che ormai è il motto silenzioso dell’ufficio:
Il cliente ha sempre ragione… fino a quando non arriva l’Agenzia delle Entrate.
Commenti recenti