Lavoro da otto anni in uno studio medico di provincia. Ho visto di tutto: gente che viene per una semplice ricetta e finisce a raccontarti la storia della sua vita, pazienti che credono che l’ecografia sia “quel coso che ti legge l’aura”, e bambini terrorizzati dal fonendoscopio come fosse un serpente.
Ma c’è stato un pomeriggio che mi è rimasto impresso.
Si presenta un uomo sulla quarantina, barba incolta, occhi stanchi, con in braccio… un gatto. Lo tiene stretto come un neonato. Entra in studio trafelato e dice:
«Dotto’, lo so che non è il vostro campo, ma non sapevo a chi rivolgermi. Si è sentito male, ha tremato tutto, ora non si muove…»
Il medico lo guarda, perplesso.
«Ma… lei sa che questo è uno studio per esseri umani, vero?»
E lui, serissimo:
«Lo so. Ma lui è la mia unica famiglia. E prima di andare dal veterinario… volevo che qualcuno lo guardasse con occhi buoni.»
Apre il trasportino. Dentro c’è un gattone bianco e rosso, immobile, disteso come un peluche buttato lì. Occhi chiusi, zampe tese.
Il medico si avvicina con delicatezza, lo guarda. Poi guarda l’uomo:
«Mi dispiace. Sembra già…»
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