Ho lavorato 14 anni come addetto al parcheggio multipiano vicino all’ospedale. Di lavoro vero e proprio ne facevo poco: controllavo scontrini, aprivo sbarre, segnalavo se c’era da spostare una macchina bloccante. Il resto del tempo lo passavo osservando.
Non la gente. Le abitudini.
C’era chi arrivava sempre al minuto spaccato, chi lasciava sempre il finestrino leggermente aperto, chi parcheggiava storto anche in un campo da calcio. E poi c’era lei.
Una macchina rossa, utilitaria. Sempre al terzo piano, sempre nello stesso posto, anche quando il parcheggio era vuoto. Ci veniva ogni martedì alle 11. Scendeva una donna sui quarant’anni, capelli raccolti, giacca blu. Mai una parola, mai un saluto. Ma lasciava ogni volta un biglietto sul cruscotto, piegato in due.
All’inizio pensavo fosse una multa non pagata o una fissazione. Poi, un giorno in cui pioveva, mi avvicino e lo leggo:
“Resisti anche oggi. Torno presto.”
Da lì ho iniziato a controllare ogni volta. Ogni martedì, un foglietto diverso:
“Ce la stai facendo.”
“Non sei solo.”
“Un giorno rideremo di tutto questo.”
Per mesi. Anni. Finché un martedì non è più tornata.
La macchina ha smesso di venire. Ho controllato per settimane. Poi mi sono convinto fosse finita, per qualsiasi motivo. Ma la cosa mi era rimasta in testa. Così, una volta, all’uscita dal turno, mi sono seduto nella mia macchina e ho scritto anch’io un biglietto.
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