Giornata tranquilla. Clima mite, musica in sottofondo, due clienti in camerino e io che piego magliette al rallentatore sperando che il tempo passi in fretta.
Entra lei. Sui cinquanta, forse cinquantacinque anni. Camminata rapida, borsa stretta sotto il braccio come se custodisse segreti di stato, sguardo che fruga nel negozio prima ancora di salutare.
Io, col sorriso da manuale “addetta vendita – livello 1”:
— Buongiorno signora, la posso aiutare?
Senza nemmeno degnarmi di un’occhiata, risponde:
— Sì guardi, questo è il sesto negozio in cui entro oggi. Cerco un vestito elegante ma non troppo elegante, giovanile ma che non sembri che ci provo, morbido ma non largo, con un colore acceso ma non pacchiano… insomma, ha capito?
Respiro piano, conto fino a tre, attivo la modalità “Zen commessa”.
— Credo di sì, signora. Ora le faccio vedere cosa abbiamo in casa.
Lei si avvicina, mi squadra con aria sospettosa.
— La avverto: se non è come dico io, mi innervosisco. E faccio la matta, eh! Peggio di una bambina coi capricci!
Collega che finge di stirare una camicia, in realtà cerca solo di non esplodere a ridere. Io annuisco con la calma di chi ha già visto cose peggiori.
— Va bene, signora. Ci proviamo.
E inizia il valzer.
Le porto un vestito?
— Troppo banale.
Un altro?
— Troppo elegante.
Un terzo?
— Ma che è questo tessuto? Mi dà fastidio solo a guardarlo.
Io continuo, con la dedizione di un missionario e la pazienza di un panda che aspetta il bambù. Lei passa in rassegna ogni capo come fosse una giurata di “MasterChef”: sguardo critico, bocca piegata verso il basso, commenti taglienti.
A un certo punto, mi regala la perla:
— Il problema è che nessuno mi capisce. Una volta nei negozi c’era buon gusto, ora invece siete tutte troppo giovani per capire come si sente una donna della mia età.
Io dentro penso: Signora, io a malapena capisco come mi sento io della mia età…
Ma fuori sorrido, porto l’ennesimo vestito e cerco di sopravvivere.
Poi, il colpo di scena. Lei nota un vestito indossato da un’altra cliente in camerino. Si ferma. Lo fissa come Mosè fissava il roveto ardente.
— Quello è perfetto.
Finalmente. Finalmente! Ho la sensazione che la luce divina stia scendendo dal soffitto.
— È quello che sta provando la signora, ma se vuole le verifico se c’è la sua taglia…
E lei, con orrore:
— No! Ma che scherza? Non compro lo stesso vestito che un’altra sta provando nello stesso momento!
Io rimango lì, con il cervello che frizza come una bibita scaduta.
— Ah, ok…
E niente. Si gira, afferra la borsa, camminata decisa verso l’uscita. Mentre apre la porta, ci lancia la sua sentenza:
— Come al solito non capite un caxxo. Eppure non è complicato, eh!
Se ne va. Senza un grazie, senza un arrivederci. Solo con un borbottio da soundtrack personale.
Resto lì, basita, con il vestito ancora in mano come un microfono spento.
Mi giro verso la collega. Lei alza lo sguardo dalla cassa, mi fissa con aria seria e dice:
— Almeno questa volta ci hanno avvertite…
Ed è scoppiata la risata. Una di quelle risate liberatorie che ti fanno piegare in due, perché a quel punto non ridi di lei, ma della situazione. Della tragicommedia quotidiana che è questo lavoro.
Morale: il problema non è servire clienti difficili. Il problema è servire quelli che pensano che siamo veggenti, medium, telepati, pronte a pescare dal nulla l’abito perfetto che hanno in mente ma non sanno descrivere.
E io, modestamente, non so leggere nel pensiero. Al massimo leggo nelle smorfie.
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