Oggi è venuta una mamma.
Tipica entrata da “non so cosa sto cercando, ma ho paura che lo stia leggendo mio figlio”.
Entra, guarda in giro con aria diffidente. Poi mi avvicina un volumetto a caso (per la cronaca: “My Hero Academia”) e mi fa:
“Mi scusi, questi… manga… sono tutti così violenti? Perché io ho visto certe cose su internet…”
Provo a spiegarle. Parlo di generi, parlo di target, parlo di narrativa, parlo perfino di crescita personale dei personaggi.
Le faccio esempi: storie scolastiche, sentimentali, psicologiche. Le cito autori.
Le dico:
“Guardi, ci sono manga che spiegano meglio l’empatia di cento film Disney messi insieme.”
Lei mi ascolta con lo sguardo di chi vorrebbe che la smettessi e dicessi solo “ha ragione lei, sono il male”.
Poi tira fuori il colpo finale:
“Perché mio figlio ne legge uno… One Peace… o qualcosa del genere… e ci sono i pirati, si picchiano. E poi? A cosa serve?”
A quel punto il ragazzino, che nel frattempo stava esplorando lo scaffale dei seinen come un archeologo in missione, si avvicina, guarda la madre e fa:
“Serve a farti capire che anche se sei diverso, puoi avere amici. E che anche se non sei forte, puoi migliorare. E che chi fa il prepotente, alla fine perde.”
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