Sala da tè.
Londra Centro.
Sono al lavoro nel ruolo di runner, il cameriere che porta ai tavoli cibi e bevande, perciò ‘non dovrei’ raccogliere ordini o accettare pagamenti, ma, si sa, in questo lavoro siamo multitasking e facciamo 24 cose in contemporanea.
Ho appena appoggiato l’ultimo piatto su un tavolo, quando vengo fermata da una ragazza, seduta con altre tre amiche.
Lei, l’unica che parla vagamente inglese, mi fa segno con le mani che vuole ordinare.
Ordina per tutte, parlottando e cercando di farsi capire a gesti da me e da loro.
Dopo 10 minuti buoni per la comanda, chiudiamo il tutto con il suo gelato.
Da qui comincia una conversazione surreale.
Voglio due palline di gelato. Cioccolato e quello che mi hanno fatto assaggiare prima di entrare.
Mi scusi, signora, non so quale gelato le abbiano fatto assaggiare, si ricorda che gusto aveva, se era dolce, frutta, crema… Il nome del gelato?
Sapeva di caffè, ma non era caffè.
Momento di panico.
Cerco di ricordarmi quale gelato abbiamo che sappia di caffè ma non è caffè.
Nulla.
Signora, abbiamo solo il caffè. Probabilmente ha assaggiato quello.
NO! Non era caffè! Sapeva di caffè, ma non era caffè.
Si ricorda almeno come si chiama il gusto?
Lei ci pensa un attimo e: “Siiii fiii!”