Io, che stavo riempiendo il gancio delle spugne a forma di orsetto, incrocio lo sguardo del mio capo, Zhang. Tranquillissimo. Non dice subito nulla. Fa ancora due conti con la calcolatrice vecchia che usa sempre — quella col nastro — e poi, mentre continua a battere scontrini e controllare un bancale di detersivi, dice con voce calma:

— “Può essere. Se vuole lavorare, posto c’è sempre. Noi lavoriamo tanto. Chi vuole lavorare, qui trova spazio.”

Silenzio.

Ma non quel silenzio imbarazzante. Era tipo un clic, come quando ti arriva una verità semplice e non puoi dire niente. Il padre ha fatto una mezza risata, ma stavolta diversa. Tipo: “eh, c’hai ragione”. Poi si è limitato a dire al figlio:
— “Dai, prenditi l’astuccio e andiamo.”

Pagano, salutano pure con gentilezza, e se ne vanno.

Io torno alle spugne ma con la testa che gira. Perché quello che ha detto Zhang non era una risposta da “ti faccio la lezione”. Era una frase vera, buttata lì, senza offesa né arroganza. Ma che ti rimane.

Zhang non è uno di quelli che si lamenta. Lavora più di tutti noi messi insieme, apre il negozio prima di tutti e chiude dopo. Ma non lo senti mai dire “voi italiani non avete voglia di fare niente” o cavolate così. Dice solo:
— “Io ho imparato a lavorare. Poi ho insegnato a lavorare bene. Ora do lavoro.”