Succede più spesso di quanto si pensi: genitori che portano il figlio per il primo paio di occhiali. Di solito si dividono in due categorie: quelli che hanno già deciso tutto (“Vogliamo la montatura blu, rotonda, flessibile, senza viti e senza Nickel, grazie”) e quelli che arrivano con lo sguardo spaesato da “non so nemmeno cosa sto facendo ma Google diceva di venire”.
La famiglia dell’altro giorno era della seconda categoria. Mamma nervosa che parlava al telefono anche mentre mi salutava, papà col bimbo in braccio che sembrava voler dire: “Mi arrendo, fai tu”. E lui, il bimbo: 5 anni, maglietta dei dinosauri, energia da vendere e la tipica andatura dei bambini che si sentono dei supereroi ma inciampano anche sui loro stessi piedi.
Io provo a spiegare alla mamma che dobbiamo instillare qualche goccia per dilatare le pupille prima del controllo, e già lì vedo il panico negli occhi di entrambi i genitori. Il papà tenta un approccio da amicone: “Dai, amore, è come mettere l’acqua negli occhi!”
Risultato: il bimbo parte in modalità ‘allarme nucleare’, urla come se stessi cercando di cavargli l’anima con una pinzetta da sopracciglia.
Poi, all’improvviso, il silenzio.
Si ferma. Si siede da solo sulla poltrona. Mi guarda serio, serio, e con la solennità di un vecchio saggio mi chiede:
— “Ma tu… ci vedi?”
Io, col camice ancora mezzo sbottonato e un cerchietto plastificato in mano, rispondo un po’ stupito:
— “Sì… certo che ci vedo.”
— “Anche da lontano lontano?”
— “Sì, anche da lontano.”
— “Ah. Allora perché hai bisogno degli occhiali?”
Silenzio. Non solo nella stanza, ma proprio nella mia testa. Mi ha fulminato.
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