Lavoro da otto anni in un ristorante cinese, di quelli classici: lanterne rosse, acquario con tre pesci tristi, menu lungo come una tesi di laurea e clienti che chiedono sempre se “i ravioli li fate davvero voi”.

Sono italiano. E sì, parlo un po’ di cinese, giusto quanto basta per sapere quando mi stanno prendendo in giro in cucina.

Una sera di fine mese, giovedì tranquillo, entra una coppia sulla cinquantina. Lui camicia troppo stretta, lei con il caschetto da “voglio parlare col responsabile”. Aria un po’ scocciata già prima di sedersi.

Li accompagno al tavolo, porto i menu. Dopo un minuto, la signora alza lo sguardo:
«Scusi… ma avete qualcosa di italiano? Perché io col cinese ci vado poco d’accordo.»

Ok.
Punto uno: sei entrata in un ristorante cinese.
Punto due: davanti a te c’è un menu con 142 piatti, tra cui mezza carta fritta, mezzo menu thailandese e anche due piatti con riso in bianco.

Le sorrido.
«Abbiamo riso alla cantonese, spaghetti di riso saltati, pollo alla piastra, cose molto semplici…»

«Eh, ma io intendevo tipo una cotoletta o delle patatine

Cerco di non svenire.

«Signora, patatine no. Abbiamo involtini primavera, se vuole qualcosa di croccante…»

Alla fine ordina un piatto di riso al curry (con diffidenza) e il marito dei ravioli al vapore.