Non è un lavoro leggero, ma mi piace. È caldo, è sporco, ti fai male a volte, ma alla fine della giornata hai dato da mangiare a mezza città. E non è poco.
Sabato scorso, ore 13:05. Il picco.
Due padelle di arancini vuote, uno allo spiedo che gira da ore e la fila fino fuori. Arriva uno, sui 40, con la camicia fuori dai pantaloni e l’occhio di chi ha già fame prima ancora di leggere il cartello.
Si mette davanti al banco, mentre io sto servendo una signora. Non saluta, non aspetta.
«Oh, ma quei polli là dietro sono pronti o stanno ancora a girà per sport?»
Lo guardo. Gli rispondo calmo:
«Stanno ancora a cuocere. Fra dieci minuti ci siamo.»
«Dieci minuti? E io nel frattempo che faccio, mi mangio il menù?»
«Se vuole c’ho la frittata, le melanzane panate, le olive ascolane…»
Lui alza le mani come se stessi cercando di vendergli un divano.
«No no, io volevo il pollo. Me lo sogno da stamattina.»
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