Lavorare in un ufficio turistico è come stare dietro un vetro sottile, sempre pronto a creparsi. La gente arriva con le domande più semplici vestite da enigmi, e tu devi rispondere con chiarezza, sorridendo, anche quando ti accorgi che la chiarezza non è affatto ciò che stanno cercando.
Era una mattina d’estate, di quelle in cui il caldo si incolla alla pelle prima ancora di aprire le finestre. La città brulicava di visitatori con cappellini e scarpe nuove, pronti a divorare bellezza ma possibilmente senza fatica.
La coppia era arrivata insieme, sincronizzati nei passi e nell’espressione di chi ha viaggiato più per dovere che per desiderio. Volevano vedere tutto, ma senza camminare. Volevano l’autenticità, ma non dove vanno i turisti. Volevano spendere poco, ma solo in posti con qualità da guida stellata. E soprattutto, volevano evitare il sole, le file, l’umidità, le scale, i musei tristi e i parchi troppo verdi.
È un equilibrio delicato, quello tra l’ospitalità e la realtà. Da una parte c’è la voglia sincera di accogliere chi arriva, di aiutarlo a orientarsi, di offrirgli il meglio che il luogo ha da dare. Dall’altra, c’è il limite inevitabile di chi sa che certe aspettative non potranno mai essere soddisfatte.
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