Estate scorsa.
Caldo asfissiante, sole a picco, l’aria che vibra sull’asfalto come un miraggio. Le cicale cantano così forte che sembra abbiano un microfono. Io, dentro l’auto bollente, con l’aria condizionata che soffia tiepida perché ormai non ce la fa più, sto cercando parcheggio.

La strada è di quelle maledette: niente linee a terra, solo auto ammassate a caso, una dietro l’altra, più serrate di un branco di sardine. Tre giri d’orologio, tre, e ancora niente.

Poi eccolo. Un rettangolo di libertà. Un’oasi. Un posto libero che sembra brillare come un miraggio nel deserto. Mi avvicino piano, già pregustando la vittoria. Metto la freccia, avvio la manovra…
…e niente.
Mi mancano dieci centimetri. Dieci. Maledetti. Centimetri.

Alzo lo sguardo e lo vedo: un’auto parcheggiata contromano proprio davanti a me. Dentro, un tipo con la testa china sul cellulare, che scorre lo schermo con un dito annoiato. È la mia occasione.