Ho tre clienti in fila. Tutti con quattro cose in croce: due pomodori, una mozzarella, un pacco di taralli. Roba che in cinque minuti li saluti tutti.

Sto battendo veloce, consegno gli scontrini, zero intoppi. Poi, come da copione, arriva lui. Uno di quei soggetti che li vedi e già sai che qualcosa succederà. Sgomita per passare davanti, anche se la fila è lineare e pacifica. Si piazza a un millimetro dal cliente che sto servendo, con quell’ansia addosso che ti fa venire voglia di rallentare apposta.

Faccio il mio dovere: batto lo scontrino, consegno il resto. Nessuna tessera richiesta — lo ammetto, svista mia.

Passo alla cliente successiva. Una signora tranquilla, capelli bianchi, mi porge la tessera del negozio prima ancora che io la chieda.

E lì, parte la scenetta.
Il tizio di prima, che evidentemente non aspettava altro che trovare un varco per dire la sua, torna indietro mezzo metro, mi fissa e chiede, con tono da interrogatorio:

— Scusa, a lei hai chiesto la tessera. Perché a me no?

— Mi scusi, mi sono dimenticata — rispondo sinceramente.

Ma lui non cerca una scusa. Lui cercava un pubblico.

— Tanto non l’avevo.
(Pausa teatrale)
— Perché forse lei non lo sa… ma le tessere sono state inventate dai potenti per controllarci. Per tracciare le nostre abitudini, raccogliere le nostre opinioni, tenerci buoni e stretti nel loro pugno.

Io lo guardo. La signora lo guarda. Silenzio.