LA NOTAIA
Supermercato.
Accaduto tanti anni fa, quando lavoravo in una cittadina ligure frequentata da gente ricca, VIP, magnati della finanza, titolari di grandi aziende, notai… Insomma la tipologia di clientela più infima e arrogante.
Fra di loro c’erano anche dei signori, ma erano rari.
A quei tempi ero responsabile del reparto ortofrutta.
Una tizia, che fra vestiti e gioielli aveva indosso lo stesso valore del mio umile appartamento in affitto, più l’auto modello Tenente Colombo con cui andavo a lavorare, durante una discussione con una collega del reparto merci varie, concludeva con una frase che tuttora non posso cancellare dalla mente:
“Certo che lei e io, è evidente, apparteniamo a due classi sociali differenti e la sua è decisamente inferiore alla mia, quindi mi pare inutile continuare questa discussione!”
Si voltava con la grazia di Crudelia Demon e si allontanava leggiadra, di lei rimaneva soltanto il profumo Chanel Grand Extrait con il quale, a quel tempo, potevo pagarmi le rate della macchina con una sola spruzzata.
Di quella merda di gente ne avevo fin sopra i capelli, avevo circa 25 anni e la diplomazia a quell’età non era compresa nel pacchetto, tanto più che quello era il mio primo impiego di responsabilità e lo stress a volte mi suggeriva soluzioni dai venti a trent’anni di galera.
Poco lontano dal supermercato abitava il grande Mino Reitano e di solito, quando passava a fare la spesa, si fermava a scambiare due chiacchiere con me e con i colleghi, lui apparteneva alla categoria “signori” che purtroppo, come ho detto, scarseggiava là dentro.
Il peggio della clientela era concentrato in una donna: faceva il notaio e come secondo lavoro si piazzava al centro del mio reparto con le braccia conserte a osservare tutti i prodotti sul banco.
Aveva l’espressione di chi disprezza il mondo, la faccia era simpatica come il lunedì mattina quando rientri al lavoro da dieci giorni di ferie in crociera, e la sua frase ricorrente era:
“Che brutta frutta e che brutta verdura che avete qua”, scandita a voce alta, un po’ come le sentenze in tribunale.
La sua comparsa teatrale nel negozio era quasi quotidiana.
Con la mia squadra entravamo in negozio alle 6 del mattino. Dopo aver ricevuto il camion con notevoli quantità di merce e averla sbancalata, controllata, messa sui banchi e diviso in cella frigo la rimanenza, le nostre divise erano fradicie di sudore.
Si arrivava all’apertura del negozio tirati e la grande affluenza di clientela ci obbligava a ripristinare continuamente l’area di vendita: avanti e indietro con i carrelli pieni di cassette.
Lei entrava e si piazzava là.
Al centro.
Diversi minuti in contemplazione con aria disgustata e via che partiva la sentenza:
“Che brutta frutta e che brutta verdura che avete qua!”
La filastrocca era ben studiata perché veniva recitata solo in presenza mia o dei colleghi e nei momenti di maggiore affluenza di clientela. Poteva essere ripetuta anche più volte a distanza di alcuni minuti, come i rintocchi del campanile, mediamente due volte, ma si arrivava anche a tre nelle giornate ventose o nei prefestivi.
“Che brutta frutta e che brutta verdura che avete qua!”
Era un appuntamento fisso ormai, la odiavamo che nemmeno chi aveva avuto la brillante idea di prenderla in moglie poteva eguagliarci. Notevole anche la puntualità, tanto che alla domanda “Che ora si è fatta?” non era raro fra di noi rispondere con un “Che brutta frutta e che brutta verdura che avete qua!” e un quarto, oppure manca venti a “Che brutta frutta e che brutta verdura che avete qua!”
La mattina ci chiedevamo, dopo averla vista sul palco al centro, “L’ha già detto?” e poi inventavamo ogni maledizione possibile perché il lupo mannaro se la prendesse, i quaranta ladroni le visitassero casa o la strega cattiva di Biancaneve le vendesse un chilo di mele che sicuramente avrebbe apprezzato più delle nostre.
Avevo provato diverse volte a chiedere spiegazioni su quella sentenza, ma la notaia si limitava a dirmi che sui banchi mettevamo roba di scarsa qualità e a lei faceva schifo, voltava le spalle e se ne andava.
La mia proposta ai colleghi di fare una colletta per pagare un killer cominciava a godere di un certo consenso generale.
Ma veniamo al dunque.
Quella mattina una concatenazione di eventi fa sì che col muletto elettrico, nella fretta di portare i bancali in magazzino, io mi pialli il tallone del piede destro. Il dolore è forte ma devo finire una parte del banco con le promozioni e i miei 25 anni di età mi permettono di continuare anche se zoppicante. Il calendario dei santi l’ho nominato tutto e porto avanti una sinfonia di bestemmie piuttosto variegata con nomi di fantasia e intervallata da canti jodel.
Entro in area di vendita.
È là.
“Che brutta frutta e che brutta ver…”, “Signora senta…”, l’incredibile Hulk al confronto è uno scolaretto e l’istinto omicida mi sorride orgoglioso, “Quando a me non piace un posto, un ristorante, un negozio, io non ci vado più, capisce cosa intendo?”
La signora notaio mi fissa con gli occhi sbarrati, così come il padrone della piantagione di cotone fissa lo schiavo che rallenta il passo, “Se vuole glielo spiego meglio!”.
Ora la notaia è inferocita e offesa, sibila qualche anatema e ride sarcastica, poi volta le spalle e parte come lo shuttle da Cape Canaveral.
Pochi giorni dopo vengo chiamato in ufficio dal capo negozio: devo spiegare l’accaduto in seguito alla lettera della nostra amata, diretta al direttore del personale. Racconto nel dettaglio ciò che è successo, me lo fa raccontare più volte e a ogni racconto le sue risate riempiono l’ufficio. Non ho conseguenze per fortuna ma vengo invitato a fare attenzione, il capo dell’epoca è una gran brava persona e ricordo ancora il suo commento di congedo:
“Alla fine ci siamo tolti una rompipalle…” pacca sulle spalle.
Fu l’ultima volta che vedemmo la nostra amata notaia. Di lei solo un’eco lontano della sua voce che sentenzia nelle giornate ventose, a volte nei prefestivi.
La colletta per il killer veniva convertita dal mio team in un colossale brindisi in mio onore.

Bei ricordi, forse tutto questo ci mancherà, forse…