Lui storce la bocca, come se avessi appena detto che sono un chirurgo marziano. Poi, con malcelato scetticismo, mi spiega che ha problemi al cambio. Nessuna spiegazione tecnica, solo: “fa strani rumori, si impunta, sistemamelo in fretta”. E via.
Controllo il veicolo, faccio un giro di prova, sollevo la macchina sul ponte, dò un’occhiata alla frizione. Dopo una decina di minuti torno da lui e gli chiedo:
“Mi scusi, quando si ferma al semaforo, tiene giù la frizione?”
Lui mi guarda come se gli avessi chiesto se accarezza i serpenti nel tempo libero.
“Vuoi insegnarmi a guidare adesso? Ovviamente sì, la tengo giù. Così sono pronto a partire.”
Annuisco, cercando di mantenere la calma:
“Capisco. Solo che, tenendola sempre premuta, la frizione si consuma molto più in fretta. E questo può influire anche sul cambio. È probabile che il problema venga da lì.”
Errore fatale.
All’improvviso esplode. Comincia a dire che non ne capisco nulla, che lui guida da trent’anni, che le donne non dovrebbero nemmeno avvicinarsi a un cofano aperto. Una scena surreale. Tutti i colleghi e persino alcuni clienti si sono voltati a guardare. Un paio con espressioni tra l’incredulo e il “oddio, ci risiamo”.
Interviene il mio capo. Si mette tra me e il tizio, e con una freddezza glaciale gli dice:
“Può cortesemente uscire subito dalla mia officina.”
E quello se ne va, borbottando frasi sconnesse. Io rimango lì, un po’ scossa, ma anche con la sensazione di aver fatto tutto nel modo giusto.
Due giorni dopo, mentre sto sistemando delle gomme in magazzino, sento la campanella dell’ingresso. Esco e me lo trovo lì. Lo stesso cliente, questa volta accompagnato da una signora sui cinquant’anni. Lui con lo sguardo basso, lei dritta come un palo, con lo sguardo di chi non è lì per accompagnare, ma per supervisionare.
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