Io non volevo fare l’istruttore di scuola guida. È capitato. Una serie di lavori a tempo, un corso pagato da mia madre, poi un posto si libera, mi chiamano, e boom: mi ritrovo con una macchina con due freni e un sedicenne col cappuccio che non sa dov’è la frizione.

La gente pensa che sia un lavoro tranquillo. Tipo: ti siedi lì, dai due consigli, poi vai a bere un caffè. Sì, certo. Tranquillo come un rodeo.

Comunque, oggi mi capita un ragazzo nuovo. Si chiama Gabriele, ma vuole farsi chiamare “Gabro”. Già partiamo male. Capelli con la riga da barbiere fighetto, occhiali da sole anche se piove, profumo che mi fa lacrimare gli occhi.

Sale in macchina senza nemmeno salutare.
“Partiamo?” fa.
“Prima regola: saluti.”
“Sì, buongiorno professò.”
“Non sono un professore.”
“Appunto.”

Partiamo. Fa cinquanta metri e già stiamo per entrare in un fioraio. Fa manovra come se stesse ruotando una nave da crociera. Il piede sinistro sembra scollegato dal resto del corpo. Quando frena, mi sbatto sempre contro il cruscotto.

“Gabro,” gli dico dopo l’ennesima frenata da infarto, “hai presente che stiamo guidando una macchina vera, non una console?”
“Eh vabbè, ‘sta macchina è vecchia, vibra tutta.”
“No, sei tu che la fai tremare.”