Con uno sguardo che avrebbe sciolto una statua di marmo e un tono carico di disprezzo, mi spara:
“A me i giovani tatuati con quei cosi di metallo sulla faccia fanno schifo. Non voglio nemmeno vederli. Voglio la sua collega.”

Una frazione di secondo. La collega, che stava in magazzino, sentendo la voce della signora e captando lo tsunami in arrivo, sbuca e si avvicina al banco. Mi guarda come se avesse appena visto il mio spirito sollevarsi dal corpo. L’imbarazzo che prova è quasi fisico, lo percepiscono anche i libri sugli scaffali.

Mi manda uno sguardo disperato, di quelli che dicono: ti prego, non esplodere. Conta fino a dieci. Fino a cinquanta, se serve.

E in effetti conto.
Respiro. Penso al mio cane. Poi alla mia pazienza. Poi alla faccia della signora.
E con una calma glaciale, guardandola dritta negli occhi, le dico:
“Non si preoccupi, signora. Tanto prima o poi ci rivedremo. Quando chiamerà il 118, magari per un malore, e io arriverò per soccorrerla. Sa, sono anche volontaria del pronto intervento.”