Lavoro in un piccolo discount di paese, quelli che tutti conoscono e in cui ogni cliente sembra sentirsi a casa propria.

Di fronte a noi c’è un albergo che ospita spesso comitive di turisti stranieri: giapponesi, coreani, cinesi… dipende dalla stagione. In questi giorni, tocca a un gruppo di coreani: educati, sempre sorridenti e molto curiosi.

Era quasi l’ora di chiusura, io già con la testa al conteggio finale in cassa e alla voglia di buttarmi sul divano appena tornata a casa. E invece, proprio alle 19:30 spaccate, eccoli: una ventina di turisti entra nel negozio tutti insieme. Un’onda di “hello” e inchini cortesi, e in un attimo ogni corsia sembrava una gita scolastica.

Qualcuno di loro mi ferma e, in un inglese un po’ incerto, mi chiede informazioni: se una zuppa istantanea contenesse carne, quanto costasse una bottiglia di vino, e se quella marca di biscotti fosse “good, sweet or salty?”. Io rispondo con calma, cercando le parole giuste per farmi capire. Non è che il mio inglese sia perfetto, ma me la cavo. Loro annuiscono, ringraziano con sorrisi enormi e tornano agli scaffali.

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