Supermercato. Sabato pomeriggio.
L’aria condizionata arranca, il bip delle casse è un mantra che ti entra nel cervello e non ti molla più. Io sono lì da ore: avanti e indietro col braccio, passaggi sul lettore ottico ormai automatici, sorriso standard stampato in faccia.
La coda sembra una processione infinita di carrelli spinti da gente con la stessa espressione: “non volevo venire, ma il frigo è vuoto”.
E all’improvviso… eccola.
La regina del controllo.
La sacerdotessa dell’ordine perfetto.
Avanza verso la cassa con passo deciso.
Solo che… non mette niente sul nastro.
Zero.
Il nastro resta lì, immacolato come un deserto.
— «Allora facciamo così: io glieli passo uno a uno, così li imbustiamo nell’ordine giusto.»
Mi blocco un attimo.
— «Come preferisce.»
(Traduzione: non preferisco affatto, ma il contratto mi impedisce di urlare “signora, qui non siamo a Masterchef”).
E così parte il rito.
Allungo il braccio oltre il plexiglass, lei mi porge ogni singolo prodotto con la delicatezza di chi passa reliquie di famiglia.
E ogni volta, istruzioni chirurgiche:
— «Questo dopo la pasta, ma prima del parmigiano.»
— «Attenta al pane, deve restare sopra le cose leggere.»
— «Queste fettine separale, che poi faccio due buste diverse.»
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