Lavoro in uno studio di tatuaggi da qualche anno. Non sono quello che tatua — faccio l’accoglienza, le prenotazioni, tengo tutto in ordine e, soprattutto, ascolto le idee più assurde della gente prima che arrivino al tatuatore.

Un giorno entra un ragazzo, avrà avuto vent’anni, con l’aria di uno che ci ha pensato molto… o forse zero.
Si siede e mi dice, tutto serio:
«Vorrei tatuarmi carpe diem… però in cinese.»

Io alzo un sopracciglio.
«In cinese? Sei sicuro?»
E lui:
«Sì, perché suona meglio. E poi tutti lo fanno in latino, io voglio distinguermi.»

Lo guardo un attimo. Poi faccio quello che faccio sempre in questi casi:
«Va bene, però prima di tutto dobbiamo assicurarci che la traduzione sia giusta. Hai già il simbolo?»
E lui:
«No, pensavo che lo sapeste voi.»

Respiro. Con calma gli spiego che il cinese non è un font decorativo, che ogni ideogramma ha mille sfumature, e che “carpe diem” non ha nemmeno una traduzione diretta che io sappia. Gli propongo alternative, gli mostro delle combinazioni con senso, gli suggerisco perfino il latino vero, semplice e pulito.