Era un negozietto piccolo, ma pieno di roba, gestito dai miei genitori. Io ci sono cresciuto dentro: scaffali alti, pacchi di pasta come mura e la bilancia per la frutta che faceva quel “clack” secco ogni volta che si azzerava.
Si conoscevano tutti per nome, e ogni cliente aveva le sue abitudini, i suoi prodotti fissi, le sue richieste strane.

Un giorno arriva la novità: le prime scatolette di cibo per gatti. Quelle storiche, primordiali. Confezione squadrata, etichetta color ruggine, nessuna foto del gatto, nessuna grafica accattivante. Solo il nome del brand in grosso e magari una scritta tipo “al manzo”.

Ai tempi sembravano un prodotto futuristico.
Per i gatti, sì, ma anche per chi cercava qualcosa di comodo da tenere in casa “per il micio” — che spesso era un animale semi randagio che passava solo se pioveva o c’erano gli avanzi del giorno prima.

Le mettiamo in bella vista, all’ingresso, in un piccolo espositore di cartone. Erano in offerta lancio, e noi tutto contenti le avevamo sistemate con cura, pensando di venderne tre a settimana, massimo.

Invece no.

Entra un cliente — uno di quelli che passava sempre al pomeriggio, giacca marrone, cappello in feltro, e una valanga di monete in tasca — e inizia a comprarle a sacchetti interi. Una, due, tre volte a settimana. “Ah, finalmente qualcosa di saporito per il gatto”, diceva sempre.