Giornata d’estate. Quella tipica. Caldo appiccicoso, bambini urlanti, passeggini ovunque, turisti confusi, zanzare impazzite e una fila interminabile che sbuca fuori dalla gelateria come un serpente al sole. Sto lavorando ininterrottamente da almeno due ore. Il braccio destro comincia a farmi male per la quantità di coppette riempite e coni farciti. L’umore, diciamo… gestibile, ma al limite.
A un certo punto arriva lei. Sui 60 anni, occhiali da sole enormi, rossetto fuoco, canotta leopardata, borsa con le frange e un atteggiamento da imperatrice in vacanza.
Si avvicina al bancone con passo deciso, mi guarda nemmeno troppo gentilmente e parte così, senza nemmeno un “ciao”:
“Allora guarda, mi metti il cioccolato sotto, la fragola a destra e il pistacchio a sinistra.”
Nemmeno una pausa tra un gusto e l’altro.
Resto un attimo in silenzio, più per cercare di decifrare la geometria tridimensionale della richiesta che per altro. Poi le rispondo con il mio tono migliore da “educazione forzata da lavoro al pubblico”:
“Guardi, mi dispiace, ma nei nostri coni medi, che sono un po’ particolari, non posso mettere il cioccolato sotto, perché la cialda è molto fragile, e se non mettiamo prima un gusto più morbido rischia di rompersi tutto. In genere iniziamo proprio da quelli più cremosi.”
Nemmeno finisco la frase che parte, stizzita, con tono da film drammatico anni ‘80:
“Ma come ti permetti di dirmi come devo mangiare il gelato?!?”
Resto un po’ spiazzata, onestamente. È una reazione talmente fuori scala che per un secondo penso che stia scherzando. Invece no. Ha il labbro teso e la fronte aggrottata. Fa sul serio.
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