Il mio titolare, colto a metà tra un ragù e una bestemmia, alza lo sguardo e risponde secco:
— 8 euro. Come tutti.
Io, dal banco, con voce perfettamente calibrata per superare il rumore della cappa:
— Soddisfatto ora?
Silenzio. Mi guarda. Tira fuori le monete da una bustina del pane, le sbatte sul bancone senza salutare e se ne va, lasciandosi dietro un alone di rimpianto per l’aria fresca.
Passano due giorni. Rieccolo. Stavolta arriva accompagnato. Con un tizio elegante, forse un vecchio amico, forse una nuova vittima. Pranzano, chiacchierano, e a fine pasto si capisce subito che sarà l’altro a pagare: il portafoglio del nostro eroe non fa nemmeno capolino.
Però lui, orgogliosissimo, prima che l’altro tiri fuori il bancomat, esclama a voce alta, proprio per farlo sapere anche a quelli dei tavoli vicini:
— Non mettere in conto i dolci, quelli li offro io!
Ooohhh! Applausi. Manca solo il tappeto rosso. Due zuppe inglesi fatte in casa, eh, mica il budino del discount. Vabbè, noi serviamo, ringraziamo e andiamo avanti.
Dopo una decina di minuti, mentre sto sistemando i tavoli fuori, lui rientra. Solo. Sempre un po’ sudaticcio.
— Quanto sono i dolci?
— Due zuppe inglesi. Cinque euro l’una. Fanno dieci euro.
Fa una faccia come se gli avessi detto “cento”.
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