Bar semideserto, metà mattina. Fuori pioviggina, dentro si sente solo il fruscio dei giornali sfogliati e il rumore intermittente della macchina del caffè.
Dieci tavolini totali. Due occupati da signori anziani assorti nella lettura, uno dal barista che fa parole crociate nei ritagli di tempo, e le uniche due poltroncine comode — in fondo al locale, vicino alla vetrata — occupate da me.
Avevo ordinato un caffè, ma era uno di quelli bollenti che se osi berlo subito ti scotti l’anima. Quindi me ne stavo lì, tranquilla, sorseggiando l’attesa.
Ed è a quel punto che entra la coppia. Avranno avuto settant’anni, ben vestiti, lui con l’aria di chi una volta faceva il capotreno e lei con un impermeabile beige da “signora che osserva e giudica”.
I tavolini sono tutti liberi, eh. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
E invece?
Avanzano dritti verso di me.
Si fermano. A meno di un metro. Io sono seduta, con la mia tazzina ancora piena davanti. Loro mi guardano come se stessi occupando la loro poltrona di fiducia.
Lui mi fissa. Non dice nulla, ma il sopracciglio alzato urla indignazione.
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