Correva l’anno 2012 e, tra lo schivare la diffusa paura di finire per colpa del cambio di calendario dei Maya – che non so come appendessero alla parete dato che era in pietra ma vabbè – e la giovane età, passavo le mie toste giornate tra un cantiere edile e un film con Stan Lee.
Alla fine di una lunga giornata lavorativa, il capo decide di fermarsi a prendere un paio di calzini in una nota catena di abbigliamento, di quelle abbastanza grandi da avere lo staff con la divisa identica, il sorriso identico, il tono identico, insomma, difficilmente confondibile.

Vago come Dante, ma senza svenimenti, lonze e Virgilio, tra i corridoi, quando arriva Lei: “Le camicie dove sono?”
La guardo.
Mi guarda.
Mi guardo.
Mi guarda.
Rimaniamo così per svariati secondi, fino a che le mie labbra si aprono e proferiscono parola nel tono più professionale possibile: “E io che ne so?”

Per capire meglio la situazione, prima di arrivare al finale, dobbiamo fare un passo indietro e descrivere, con dovizia di particolari e con il tipico tono della battuta di caccia di Fantozzi, il mio abbigliamento:

  • Cesta di capelli ricci in stile Caparezza, impreziosita da pepite di laterizio e frammenti di cemento impossibili da togliere senza un’adeguata dose di shampoo causa cementificazione del suddetto capello riccio.
  • Volto dai lineamenti mediorientali con abbinata barba modello Al quaeda molto in voga in quegli anni.
  • Tracolla della Rifla a stelle gialle adatta allo spaccio o al trasporto di attrezzi da un punto A ad un punto B senza dare troppo nell’occhio
  • Camiciona in flanella a quadri marroni con velatura di calce sul lato sinistro.
  • Pantalone militare in colorazione Woodland sbiadita, ultima tendenza in fatto di usato militare alle fiere del softair per l’esosa cifra di 5€ (li ho ancora quei pantaloni, sono indistruttibili).
  • Scarpa antinfortunistica taglia 46 con macchie di vernice al quarzo bianca e svariate striature da torsione che le rendevano non molto dissimili da un rinoceronte con la passione per la pittura.